Con la sentenza del 10 aprile 2017 n 18090 la Cassazione Penale ha ritenuto responsabile di un infortunio occorso ad un lavoratore dipendente il preposto anche se quest’ultimo non era in possesso della specifica formazione prevista dal D.Lgs. 81/08.
L’art. 299 D.Lgs. 81/08, infatti, estende le responsabilità inerenti alla posizione di garanzia relativa al preposto, ai soggetti che, pur sprovvisti di regolare investitura, esercitino in concreto i poteri giuridici inerenti a quest’ultima figura.
La Corte di Cassazione inoltre precisa che “ove (il preposto) non si fosse sentito preparato a svolgere tali funzioni, proprio perché non specificamente formato, non avrebbe dovuto assumerle. In tali casi, infatti, l’addebito di colpa consiste proprio nell’aver intrapreso un’attività che non si è in grado di svolgere adeguatamente, non avendo le conoscenze o le capacità necessarie (c.d. colpa per assunzione). Infatti, l’esplicare le mansioni inerenti a un determinato ruolo, nel contesto dell’attività lavorativa, comporta la capacità di saper riconoscere ed affrontare i rischi e i problemi inerenti a quelle mansioni, secondo lo standard di diligenza, di capacità, di esperienza, di preparazione tecnica richiesto per il corretto svolgimento di quel determinato ruolo, con la correlativa assunzione di responsabilità. Ne deriva che chi, non essendo all’altezza del compito assunto, esplichi una certa funzione senza farsi carico di procurarsi tutti i dati tecnici e le conoscenze necessarie per esercitarla adeguatamente, nel caso in cui ne derivino dei danni, risponde di questi ultimi”.
Fatto
- T.B. e A.G. ricorrono per cassazione avverso la sentenza in epigrafe indicata, con la quale è stata confermata, in punto di responsabilità, la pronuncia di condanna emessa in primo grado, in ordine al reato di cui all’art. 589 cod. pen. perché, A.G. in qualità di amministratore delegato della srl “Thermosolar”, omettendo l’effettuazione di qualsivoglia attività di formazione e informazione del personale nonché la predisposizione di idonee procedure connesse alle attività da compiere in ambienti sopraelevati, con pericolo di caduta dall’alto, e omettendo, inoltre, di dare adeguate istruzioni; T.B., in qualità di preposto di fatto e di componente anziano dell’ufficio tecnico della predetta impresa, nonché di delegato ai sopralluoghi per verifica della fattibilità dei progetti, omettendo di controllare l’effettiva consistenza della superficie del tetto e quindi la calpestabilità dello stesso, consentivano e comunque non impedivano che il dipendente R.M., dopo essersi portato sul tetto di una costruzione, mediante il carrello elevatore, vi scendesse e sostasse, senza alcun presidio anticaduta, spostandosi sullo stesso e precipitando al suolo, a seguito del cedimento di una lastra.
2. A.G. deduce, con il primo motivo, violazione di legge e vizio di motivazione, poiché la persona deceduta era un ingegnere, laureato da oltre 10 anni, con ampia esperienza professionale e quindi in possesso di tutti gli strumenti culturali e tecnici per svolgere l’incarico, con totale autonomia decisionale e con sovra ordinazione gerarchica rispetto ai colleghi operanti in sede di sopralluogo. Dal filmato agli atti è rilevabile come il R.M. si sia mosso sul tetto non camminando ma correndo e saltando, sì da provocare il cedimento della struttura, a causa dell’esponenziale aumento della pressione esercitata dal peso del corpo in fase di corsa o di salto. Trattasi dunque di una condotta abnorme, di portata tale da rendere irrilevante qualunque altra causa preesistente.
2.1. Al ricorrente è stata inflitta la pena di anni 2, identica a quella irrogata al coimputato M., nonostante i giudici di merito abbiano attribuito a quest’ultimo responsabilità molto più gravi nella causazione del sinistro, e malgrado la prevalenza concessa all’attenuante di cui all’art. 62 n. 6 cod. pen. Ingiustificatamente non sono state concesse le circostanze attenuanti generiche, nonostante l’incensuratezza del ricorrente e la condotta immediatamente susseguente al reato, caratterizzata da fattivo impegno per l’applicazione delle normative antinfortunistiche.
3. T.B., dopo aver ribadito le censure formulate dal coimputato in merito all’abnormità del comportamento della persona deceduta, lamenta violazione di legge e vizio di motivazione, poiché egli stesso non aveva ricevuto alcuna adeguata formazione e non era titolare di alcuna posizione di sovra ordinazione gerarchica rispetto agli altri colleghi, i quali operavano tutti in totale autonomia. La persona deceduta aveva conoscenze tecnico-scientifiche ben superiori a quelle del ricorrente, che è soltanto un perito industriale e non un ingegnere.
3.1. Erroneamente non è stata concessa l’attenuante ex art. 62 n. 6 cod. pen. al T.B., sulla base del rilievo che il risarcimento era stato effettuato da A.G.. Il ricorrente, infatti, benché semplice dipendente, ha sempre fattivamente operato, a fianco dell’amministratore delegato A.G., affinché l’azienda procedesse al risarcimento del danno e dunque ha diritto di fruire dell’attenuante.
Si chiede pertanto annullamento della sentenza impugnata.
Diritto
- Prendendo le mosse dal ricorso A.G., occorre osservare come la censura formulata con il primo motivo sia infondata. Costituisce infatti ius receptum, nella giurisprudenza della suprema Corte, il principio secondo il quale, anche alla luce della novella del 2006, il controllo del giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene pur sempre alla coerenza strutturale della decisione, di cui saggia l’oggettiva “tenuta”, sotto il profilo logico-argomentativo, e quindi l’accettabilità razionale, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (Cass., Sez. 3, n. 37006 del 27 -9-2006, Piras, Rv. 235508; Sez. 6, n. 23528 del 6-6-2006, Bonifazi, Rv. 234155). Ne deriva che il giudice di legittimità, nel momento del controllo della motivazione, non deve stabilire se la decisione di merito proponga la migliore ricostruzione dei fatti né deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento, atteso che l’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. non consente alla Corte di cassazione una diversa interpretazione delle prove. In altri termini, il giudice di legittimità, che è giudice della motivazione e dell’osservanza della legge, non può divenire giudice del contenuto della prova, non competendogli un controllo sul significato concreto di ciascun elemento probatorio. Questo controllo è riservato al giudice di merito, essendo consentito alla Corte regolatrice esclusivamente l’apprezzamento della logicità della motivazione (cfr., ex plurimis, Cass., Sez. 3, n. 8570 del 14-1-2003, Rv. 223469; Sez. fer., n. 36227 del 3-9-2004, Rinaldi; Sez. 5, n. 32688 del 5-7-2004, Scarcella; Sez. 5, n.22771 del 15-4-2004, Antonelli).
1.1. Nel caso in disamina, l’impianto argomentativo a sostegno del decisum è puntuale, coerente, privo di discrasie logiche, del tutto idoneo a rendere intelligibile l’iter logico-giuridico seguito dal giudice e perciò a superare lo scrutinio di legittimità, avendo i giudici di secondo grado preso in esame tutte le deduzioni difensive ed essendo pervenuti alle loro conclusioni attraverso un itinerario concettuale in nessun modo censurabile, sotto il profilo della razionalità, e sulla base di apprezzamenti di fatto non qualificabili in termini di contraddittorietà o di manifesta illogicità e perciò insindacabili in questa sede. Ciò si desume dalle considerazioni formulate dal giudice a quo, in particolare a p. 8 della sentenza impugnata, laddove la Corte territoriale ha evidenziato che il R.M. non fece nient’altro che quello che gli era stato detto e che era stato programmato di eseguire. Nè risulta in alcun modo che gli sia stata rappresentata la pericolosità della struttura o la necessità di adottare particolari cautele, come quella di camminare solo sulle travi in cemento. È invece certo che egli sia rimasto del tempo a camminare sul tetto del capannone, allo scopo di procedere alle misurazioni, sotto lo sguardo dei presenti, in particolare, di T.B., senza che alcuno gli facesse presente il pericolo o lo richiamasse. Lo stesso ing. T., che ebbe a camminare su quella copertura insieme alla vittima, ha confermato che entrambi erano sicuri che le onduline potessero sostenere il loro peso e sapevano che il tetto era controsoffittato: ed effettivamente lo era, tranne che nella zona ove poi cadde il R.M.. Di qui la conclusione dei giudici di merito secondo cui il lavoratore subì l’infortunio mentre eseguiva le sue mansioni, conformemente all’incarico ricevuto e senza porre in essere alcuna condotta imprevedibile o esorbitante rispetto alle mansioni medesime. Tali conclusioni sono del tutto in linea con il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui l’interruzione del nesso causale tra condotta ed evento è configurabile allorché la causa sopravvenuta inneschi un rischio nuovo e del tutto incongruo rispetto al rischio originario, attivato dalla prima condotta (Cass., Sez. 4, n. 25689 del 3-5-2016, Rv. 267374; n. 43168 del 2013, Rv. 258085; n. 17804 del 2015, Rv. 263581; Sez. 4, n. 15493 del 10-3-2016, Pietramala, Rv. 266786). E comunque non può ritenersi causa sopravvenuta, da sola sufficiente a determinare l’evento, il comportamento negligente di un soggetto, nella specie il lavoratore, che si riconnetta ad una condotta colposa altrui, nella specie a quella del datore di lavoro e del preposto di fatto (Cass., Sez. 4, n. 18800 del 13-4-2016, Rv. 267255; n. 17804 del 2015, Rv. 263581; n. 10626 del 2013, Rv.256391).
2. Nemmeno la seconda censura formulata da A.G. può trovare accoglimento. Le determinazioni del giudice di merito in ordine al trattamento sanzionatorio sono infatti insindacabili in cassazione ove siano sorrette da motivazione esente da vizi logico-giuridici. Nel caso di specie, la motivazione della sentenza impugnata è senz’altro da ritenersi adeguata, avendo la Corte territoriale fatto riferimento alla gravità e molteplicità degli inadempimenti degli obblighi di prevenzione e sicurezza del lavoro e alla mancanza di elementi positivamente apprezzabili, diversi dal comportamento risarcitorio, già valutato ai sensi dell’alt. 62 n. 6 cod. pen., con giudizio di prevalenza, e dall’incensuratezza, da sola insufficiente a giustificare un più mite trattamento sanzionatorio.
3. Il primo motivo del ricorso presentato da T.B. ripropone la censura inerente all’abnormità del comportamento del lavoratore, con argomentazioni non dissimili da quelle del ricorso A.G.. Si rinvia dunque alle considerazioni formulate al par.l.
4. Anche la seconda censura è infondata. Al riguardo, il giudice a quo ha evidenziato che il T.B. organizzò sia il primo sopralluogo dell’11 marzo 2008 che il sopralluogo nel quale si verificò l’infortunio. Fu lui a richiedere la presenza dell’elevatore e a dare ai presenti le direttive necessarie. In tale situazione, sia il R.M. che il T. confidarono che il collega, il quale non li aveva avvisati di alcun pericolo, avesse previamente accertato la fattibilità in sicurezza delle operazioni necessarie. Essi – precisa la Corte d’appello- non potevano certo immaginare che il T.B. avesse programmato il loro accesso al tetto, esponendoli a un pericolo. Del resto, nemmeno quando li vide camminare sulle onduline, come confermato dalle videoriprese, T.B. avvisò i colleghi di alcunché, così confermando in questi ultimi la percezione di agire in sicurezza, come riferito espressamente dal T..
Trattasi, come si vede, di una motivazione precisa, fondata su specifiche risultanze processuali e del tutto idonea a illustrare l’itinerario concettuale esperito dal giudice di merito. D’altronde, Il vizio di manifesta illogicità che, ai sensi dell’art. 606 comma 1 lett e) cod. proc. pen. , legittima il ricorso per cassazione implica che il ricorrente dimostri che l’iter argomentativo seguito dal giudice è assolutamente carente sul piano logico e, per altro verso, che questa dimostrazione non ha nulla a che fare con la prospettazione di un’altra interpretazione o di un altro iter, in tesi egualmente corretti sul piano della razionalità. Ne consegue che, una volta che il giudice abbia coordinato logicamente gli atti sottoposti al suo esame, a nulla vale opporre che questi atti si prestavano a una diversa lettura o interpretazione, munite di eguale crisma di logicità (Sez. U., 27-9-1995, Mannino, Rv. 202903). La verifica che la Corte di cassazione è abilitata a compiere sulla completezza e correttezza della motivazione di una sentenza non può infatti essere confusa con una rinnovata valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella fornita dal giudice di merito. Né la Corte suprema può esprimere alcun giudizio sulla rilevanza e sull’attendibilità delle fonti di prova, giacché esso è attribuito al giudice di merito, con la conseguenza che le scelte da questo compiute, se coerenti, sul piano logico, con una esauriente analisi delle risultanze probatorie acquisite, si sottraggono al sindacato di legittimità, una volta accertato che, come nel caso in disamina , il processo formativo del libero convincimento del giudice non abbia subito il condizionamento derivante da una riduttiva indagine conoscitiva o gli effetti altrettanto negativi di un’imprecisa ricostruzione del contenuto di una prova (Sez. U., Rv. 203767 del 25-11-1995, Facchini). Dedurre infatti vizio di motivazione della sentenza significa dimostrare che essa è manifestamente carente di logica e non già opporre alla ponderata ed argomentata valutazione degli atti effettuata dal giudice di merito una diversa ricostruzione, magari altrettanto ragionevole (Sez. U., 19-6-1996, Di Francesco, Rv 205621).
5. Esente da censure è anche l’affermazione formulata dalla Corte territoriale, secondo cui, nel momento in cui il T.B., di fatto, assunse il compito di organizzare e dirigere il sopralluogo, per conto del datore di lavoro, assunse anche l’obbligo di garantire la sicurezza dei partecipi; e, d’altronde, l’omissione di ogni pur minima cautela, prima di consentire ai colleghi di accedere al tetto, rende irrilevante, ai fini della sussistenza del reato, il fatto che il T.B. stesso non avesse ricevuto alcuna specifica formazione in merito ai rischi inerenti alle operazioni da svolgere. Tale asserto si inserisce perfettamente nell’ottica delineata dall’art. 299 d. lgs n. 81 del 2008, che estende le responsabilità inerenti alla posizione di garanzia relativa al preposto, a norma dell’art. 2 d. lg. cit., ai soggetti che, pur sprovvisti di regolare investitura, esercitino in concreto i poteri giuridici inerenti a quest’ultima figura. E d’altronde, ove il T.B. non si fosse sentito preparato a svolgere tali funzioni, proprio perché non specificamente formato, non avrebbe dovuto assumerle. In tali casi, infatti, l’addebito di colpa consiste proprio nell’aver intrapreso un’attività che non si è in grado di svolgere adeguatamente, non avendo le conoscenze o le capacità necessarie (c.d. colpa per assunzione). Infatti, l’esplicare le mansioni inerenti a un determinato ruolo, nel contesto dell’attività lavorativa, comporta la capacità di saper riconoscere ed affrontare i rischi e i problemi inerenti a quelle mansioni, secondo lo standard di diligenza, di capacità, di esperienza, di preparazione tecnica richiesto per il corretto svolgimento di quel determinato ruolo, con la correlativa assunzione di responsabilità. Ne deriva che chi, non essendo all’altezza del compito assunto, esplichi una certa funzione senza farsi carico di procurarsi tutti i dati tecnici e le conoscenze necessarie per esercitarla adeguatamente, nel caso in cui ne derivino dei danni, risponde di questi ultimi (Cass., Sez. 4, 6-12-1990, Bonetti).
6. È Infine del tutto corretta l’affermazione della Corte territoriale secondo cui l’attenuante ex art. 62 n. 6 non è concedibile al T.B., in quanto il comportamento risarcitorio è stato posto in essere da altri. Il risarcimento del danno da parte di uno dei coimputati non comporta infatti l’applicabilità della relativa attenuante agli altri, dovendosi preservare la natura volontaristica della condotta risarcitoria e, con essa, il quid di merito della riparazione (Sez. U., n. 5941 del 22-1-2009, Pagani, Rv. 242215).
7. I ricorsi vanno pertanto rigettati, con conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
PQM
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 12-1-2017.
sentenza del 10 aprile 2017 n 18090
0 commenti